LAVORO DOMESTICO: UNA RIVENDICAZIONE DELLE DONNE

“Non era considerato un lavoro “afferma Massimo De Luca, avvocato dello Studio Legale che assiste DOMINA – Associazione Nazionale Famiglie Datori di Lavoro Domestico – durante la conferenza di venerdì 8 novembre 2024 a Milano.

Si riferisce agli anni 50 quando il settore del lavoro domestico era occupato esclusivamente da migranti italiani, soprattutto donne che lasciavano le proprie case per andare in quelle delle famiglie borghesi a lavorare come domestiche.

“Nella maggioranza dei casi venivano dalle campagne. Parliamo di grandi flussi migratori che riempivano le navi in partenza dalla Sardegna, dalle isole, verso il continente. Parliamo specialmente di ragazze intorno ai dodici anni che andavano a fare le cosiddette ‘servette’ nelle case nobiliari borghesi o che andavano ad accudire, già da piccole, i loro bambini” racconta l’avvocato.

Il lavoro sul campo e la formazione di professionisti specializzati hanno contribuito e continuano a contribuire alla lotta per il riconoscimento dei diritti fondamentali delle lavoratrici, e in generale dei lavoratori.

“Il lavoro domestico è sempre esistito. Nonostante la condizione sociale di chi lavorava nel settore, all’epoca il legislatore ha deciso di escluderlo dalla contrattualistica. Era l’unico settore che non poteva avere contratti collettivi perché non era considerato lavoro”, sottolinea De Luca.

Il motivo ha radici culturali che accomunano molti Paesi, non solo l’Italia. Le donne hanno sempre lavorato in casa gratis. Perché, quindi, un’attività svolta a prescindere da un contratto dovrebbe essere paragonata a qualsiasi altro lavoro?


Massimo De Luca, durante la conferenza cerca di rispondere alla domanda riportando i fatti storici che hanno in qualche modo rivoluzionato il settore: “Tra gli anni 50 e 70 questa condizione ha comportato una serie di sommosse da parte dei lavoratori domestici (donne e uomini) e tra loro spiccano le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani (ACLI) che all’epoca scendevano in piazza per chiedere il riconoscimento dei diritti negati.  Il contratto collettivo nasce da un’associazione datoriale, o meglio da una serie di famiglie borghesi di alto rango torinesi che hanno ben pensato di chiedersi perché le lavoratrici dentro casa loro non avessero questi diritti. Era il periodo delle rivoluzioni, di una corrente soprattutto femminista.  Negli anni 70 emergeva un cambio radicale del mondo e c’era un fermento culturale importante. In questo contesto le famiglie si sono riunite in una associazione con il nome di Nuova Collaborazione. Hanno poi incontrato le ACLI e l’associazione del Clero per redigere il primo contratto collettivo. Le ACLI, al momento della sottoscrizione non hanno però firmato – racconta l’avvocato e continua – Lo ha firmato la FEDERCOLF (Federazione sindacale dei lavoratori a servizio dell’uomo) e in coda si sono unite CGIL, CISL e UIL. Avviene negli anni 70 non con estrema facilità perché la legge impediva il contratto collettivo. Lo impediva il codice civile. Grazie a un giudice illuminato pugliese del Tribunale di Bari, che ha sollevato una questione di diritto costituzionale, i giudici della Consulta hanno annullato la norma che lo proibiva”.

Nonostante alcune vittorie importanti, il lavoro domestico è sempre stato discriminato e sminuito: “Dagli anni 50 a oggi tutte le norme relative ai diritti dei lavoratori prevedono una serie di esclusioni del nostro settore. Significa che i vari incentivi di ingresso al mondo del lavoro si applicano a tutti tranne a quello domestico, a tutte le lavoratrici donne tranne a quelle del nostro settore e via dicendo…” sottolinea De Luca.
Un mancato riconoscimento che rispecchia esattamente quelle che sono le dinamiche di ruolo legate al genere sessuale all’interno dei nuclei famigliari, nella società e quindi nel mondo del lavoro.

Oggi però sembra una lotta dimenticata perché le lavoratrici domestiche sono in maggioranza straniere, non più italiane.

Chi emigra dai Paesi che non hanno mai vissuto i nostri anni 70, fa fatica a rivendicare questi diritti. Non ha la piena consapevolezza del valore di quella lotta. E nella maggioranza dei casi non trova nemmeno il supporto di chi quella battaglia l’ha combattuta direttamente o indirettamente. Il contesto sociale in cui le donne, italiane e straniere, sono costrette a organizzare la loro vita famigliare e lavorativa, ostacola la solidarietà femminile.

Diventa fondamentale, quindi, ricordare le origini del movimento femminista da cui nasce la rivendicazione dei diritti per le lavoratrici domestiche e per tutte le donne che ancora oggi combattono per l’emancipazione sociale e professionale.

Tutto quello che è stato fatto per equiparare il lavoro domestico agli altri va di pari passo alla lotta per la parità di genere.

“Il nostro settore, diversamente dagli altri, doveva recuperare tutto ciò da cui noi eravamo esclusi. Dalla sentenza della Corte Costituzionale del primo contratto collettivo sono subentrate delle leggi che hanno incluso il lavoro domestico per quanto riguarda il diritto e l’obbligo della tredicesima, del trattamento di fine rapporto, dell’Inps, dell’Inail e via discorrendo – spiega De Luca e aggiunge – In molti casi però, hanno messo delle pezze di stoffa per coprire i buchi. Capite bene che addosso a un bel vestito su misura, le pezze a volte creano dei problemi. Da qui nascono alcune incapacità nell’applicare la nostra normativa contrattuale”.

Come in tutte le cose, esiste anche un lato positivo. L’Italia rispetto a molti Paesi dove questa emancipazione legislativa non c’è mai stata, offre un esempio di contrattualità importante. Il nostro CCNL, studiato dalle Nazioni Unite, è un modello per tutte le culture dove la “serva domestica” non ha ancora alcun diritto. È valido però solo sul territorio nazionale dove vige la legge italiana, e all’interno delle mura domestiche. C’è infatti una lista di limitazioni che impediscono l’applicabilità. È importante sottolineare che la regolarità del rapporto di lavoro inizia nel momento in cui questo è registrato all’Inps. Qualsiasi attività prima della registrazione deve essere considerata irregolare.

-Metodo Giornalistico Codificato-

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